Le maschere della tradizione e personaggi
della leggenda popolare bergamasca.
L'Arlecchino, maschera della commedia dell'arte appartenente alla famiglia degli Zanni (Giovanni in Bergamasco) ormai usata come costume di carnevale, rappresenta la parte povera della città di Bergamo.
Il nome «arlecchino» deriva da «hellequin»: nome di un diavolo buffone delle leggende medievali francesi (da qui, la somiglianza nel nome e nel comportamento da buffone). Le radici di questa maschera si trovano sul palcoscenico dei teatri e sui canovacci di autori come il nostro Carlo Goldoni; il suo ruolo è quello del servo, povero, sempre attivo a cercare cibo e una donna da amare.
L'Arlecchino salì sul palcoscenico nel XVII secolo vestito con larga casacca e pantaloni bianchi, che dopo poco tempo sostituì con il suo costume attuale: pantaloni aderenti fino alle caviglie e casacca larga, tappezzati da losanghe verdi, gialli, blu e rossi; una maschera di cuoio nero copre metà viso lasciando scoperta la bocca e permettendo una buffa mimica, caratteristica del personaggio, con sopracciglia voluminose che esprimono aria interrogativa. Porta un cappuccio bianco come copricapo, ornato con coda di coniglio o di lepre, e una cintura in vita a cui è appeso il batocio.
È il tipico servo ignorante, goffo, ma di astuzia sorniona, capace di abbindolare i suoi padroni per scappare dai guai e per sfuggire alle busse dei forti e dei prepotenti. Avido e scaltro, sempre innamorato di una servetta e perennemente alla ricerca di cibo e danaro.
Maschera dal linguaggio sboccato, rudemente espressivo, dalle origini bergamache, che nel corso della storia curò il suo linguaggio senza dimenticare gli idiotismi bergamaschi mescolati al veneziano ed a un francese ad arte storpiato. La capacità scenica dell'arlecchino richiedeva un'allenamento formidabile ed espressioni mimiche che resero famoso il servo. La parola arlecchino entrò presto nell'uso quotidiano indicando comportamenti poco seri e indumenti di grande fantasia.